IL PRETE GIANNI, L’ARCA E I CAVALIERI TEMPLARI

(di Maurizio Santi)

Si hanno notizie del Prete Gianni non prima del XII secolo, vale a dire nel periodo in cui i Crociati occuparono la Città Santa di Gerusalemme, e precisamente nel 1145, nella cronaca del vescovo Otto di Freisingen, citando, come fonte attendibile, un uomo di Chiesa siriano. Si faceva riferimento a Gianni, re e sacerdote (rex et sacerdos), un cristiano che viveva nel lontano oriente e il suo regno era associato all’India o più in generale alle Indie, ma in realtà si trattava dell’Etiopia. Inoltre si diceva che fosse ricchissimo e a capo di un grande esercito che avrebbe voluto mettere a disposizione dei Crociati di Terra Santa.

Ulteriori notizie del Prete Gianni si ebbero nell’anno 1165, quando una sua lettera indirizzata a diversi re cristiani, tra cui il re di Costantinopoli Emanuele e all’imperatore romano Federico, fece il giro dell’Europa. Nella lettera si leggeva di cose straordinarie presenti nel suo paese. Papa Alessandro III, nell’anno 1177, scriveva una lettera al Prete Gianni, visto che il suo medico personale, il dottor Filippo, era stato avvicinato a Gerusalemme da “onorate persone del regno del monarca”. Importante è ricordare che nelle opere di Rufino, teologo bizantino del IV secolo, si leggeva della conversione al cristianesimo dell’Etiopia. Assolutamente interessante è ricordare la presenza di un principe etiope in Gerusalemme, ove trascorse un lungo esilio; si chiamava Lalibela, mentre regnava in Etiopia Harbay (Prete Gianni), così i re venivano chiamati. Entrambi discendevano da una dinastia chiamata Zagwe, dominante in Etiopia dall’anno 1030 al 1270 circa, quando i Salomonidi ritornarono sul trono. Non si hanno molte notizie di questo periodo storico se non quelle che riguardano la rivolta di una tribù guidata da una certa Gudit, intorno al 980; professava la fede ebraica ed era decisa a cancellare la religione cristiana. Conquistò Axum e rase al suolo gran parte della città, uccise il suo imperatore, di stirpe solomonide, e due dei suoi tre figli, il terzo riuscì a mettersi in salvo garantendo così la continuità della sua famiglia. Gudit guidava un gruppo di tribù chiamate Agaw, nelle quali vi era anche la presenza dei falasha, gli ebrei neri d’Etiopia. Non vi sono certezze che questa regina possa avere lasciato un diretto successore, ma certamente quasi tutta la parte del nord dell’Etiopia era sotto il controllo degli Zagwe, anche loro di estrazione Agaw, convertiti al cristianesimo prima della nascita del principe Lalibela circa nell’anno  1140, fratellastro del re Harbay, che fin dalla nascita fu considerato un predestinato alla grandezza. Sua madre gli dette il nome di Lalibela che letteralmente significava “le api riconoscono la sua sovranità”, sulla scia di antiche credenze e profezie dovute al mondo degli animali. Tutto ciò aveva provocato nel monarca Harbay un vero e proprio terrore di perdere il trono e in tutti i modi cercò di uccidere il fratellastro. Il giovane principe Lalibela subì molti attentati, l’ultimo in ordine di tempo fu un tentativo di avvelenamento che fece sprofondare questo nobile in una sorte di catalessi che durò circa tre giorni. Narrano le leggende etiopi, che in questi tre giorni, egli venne condotto da angeli al primo, secondo e terzo Cielo e avrebbe incontrato l’Onnipotente che lo avrebbe rassicurato per la sua vita e il suo regno, in quanto lui era consacrato per un particolare progetto. Una volta svegliatosi avrebbe dovuto abbandonare l’Etiopia e rifugiarsi a Gerusalemme, dove avrebbe trovato dei forti protettori che a tempo debito lo avrebbero riportato nella sua terra natale incoronandolo re. L’esilio del giovane principe, in Gerusalemme, iniziò circa nell’anno 1160 (Lalibela doveva avere circa 20 anni) e terminò nel 1185, quando egli tornò in trionfo nel suo paese accompagnato da un folto gruppo di cavalieri europei, depose Harbay e si proclamò re.

La cosa che non avevamo, volutamente, riportato della lettera del Prete Gianni (1165), è una specifica e violenta aggressione contro i Cavalieri Templari, dei quali con grande ostilità scriveva che avevano stretto rapporti con i musulmani, e non si doveva confidare nella Sacra Milizia del Tempio perché gli appartenenti erano falsi e traditori. Concludeva chiedendo che fossero uccisi tutti quanti. Il motivo forte che aveva spinto Harbay, dopo solo cinque anni di esilio forzato del fratellastro Lalibela, a scrivere certe cose contro quei Cavalieri era dovuto alle notizie che gli comunicavano i propri emissari e spie che aveva inviato a Gerusalemme. Il Principe Lalibela fin dal suo arrivo in Terra Santa, aveva stretto legami di amicizia con i Templari, i quali lo proteggevano ventiquattro ore su ventiquattro e per il fratellastro regnante in Etiopia non vi era possibilità di farlo uccidere dai suoi sicari. Inoltre Harbay aveva saputo dai suoi emissari che il Principe Lalibela era intenzionato a ritornare nel suo paese, ed aveva chiesto aiuto proprio ai Cavalieri Templari. Tutto ciò confermava che i Cavalieri avevano stretto con Lalibela proprio il tipo di alleanza che Harbay avrebbe dovuto temere. Per questo motivo il monarca etiope, e i suoi agenti in Gerusalemme, architettarono di scrivere le peggiori nefandezze sui Templari. Questi cavalieri, al contrario, avevano tutto l’interesse a legarsi al pretendente al trono di un paese che si vantava di possedere l’Arca perduta, precedentemente conservata nel Tempio appositamente costruito e all’epoca sede dei Templari.

Le leggende etiopi attribuiscono le costruzioni di quelle splendide ed uniche chiese volute dal re Lalibela, agli angeli, ma in realtà gli artefici di questi luoghi sacri (costruttori di cattedrali) erano gli appartenenti alla Sacra Milizia del Tempio. Nella città di Lalibela, che prende dal monarca il suo nome, sul soffitto della chiesa intagliata sulla roccia di Beta Mariam (un ulteriore luogo di culto dedicato a Santa Maria Madre di Cristo e comune per l’Ordine del Tempio) vi sono delle Croci dipinte di rosso, purtroppo scolorite, “Croix Pattée” che non somigliano a nessuna delle Croci in uso dalla popolazione e dai sacerdoti etiopi. Si deve ricordare che l’emblema dei Templari, adottato dopo il Sinodo di Troyes, ufficialmente riconosciuto all’Ordine nell’anno 1128, era proprio una Croix Pattée rossa (avente bracci triangolari aperti all’infuori). Un’altra stupefacente chiesa è quella di Beta Giorghis (San Giorgio), intagliata sia esternamente che internamente a forma di Croce, con all’interno una grande cupola. Sul tetto di questo enorme edificio è scolpita una doppia Croce, una dentro l’altra, come quelle in uso in Portogallo dall’Ordine di Cristo, e per i Templari, già anni prima, questa figura doveva rivestire una certa importanza. Ulteriore conferma si trovava in un libro intitolato “Il Prete Gianni e le Indie”. Era il diario dell’ambasciata portoghese in Etiopia negli anni 1520/26. L’autore, Padre Francisco Alvarez, considerato storicamente molto importante per la conoscenza dell’Etiopia, stampò questo diario di oltre 500 pagine nell’anno 1540 a Lisbona, e fra le tante cose interessanti vi si leggeva che i sacerdoti etiopi confermavano che queste chiese erano state costruite in 25 anni da uomini bianchi su ordine del re Lalibela, e il tutto era scritto. Certamente per la Sacra Milizia rosso-crociata, la cui nascita stessa era strettamente legata ai misteri del Tempio di Salomone, nessuna reliquia storica poteva essere più desiderata dell’Arca come simbolo di gesta cavalleresche. Credo di non sbagliare se ritengo che i Templari avessero intrapreso questa ricerca in Etiopia nel XII secolo, e molto probabilmente erano riusciti nel loro intento che Wolfram aveva descritto come “il compimento del desiderio del cuore”. Attenzione, tra il 1195 e il 1200, Wolfram von Eschenbach iniziò a scrivere “Parzival”, che era la continuazione dell’opera iniziata da Chrétien de Troyes, trasformando però il Graal in una Pietra, incorporando nella storia molti elementi etiopi e citando specificatamente non solo “Prete Gianni” ma anche i Templari. Questi cavalieri fecero in modo che i risultati della loro ricerca fossero codificati da Wolfram (quasi certamente anch’egli Templare) nell’arcano simbolismo della sua “Pietra chiamata Graal”. Altra testimonianza molto precisa era quella del geografo armeno Abu Salih che, nel suo “Chiese Monasteri dell’Egitto e di alcuni paesi vicini”, scritto nei primi anni del XIII secolo circa, nel descrivere il trasporto dell’Arca precisava che tale operazione era effettuata da portantini di carnagione bianca e taluni avevano i capelli biondi ed altri rossi. Presumibilmente tale cerimonia si svolgeva nella città di Axum, luogo dove si trovava anticamente l’Arca, e ancora in quel luogo sistemata, quando salì al trono Lalibela. Questo monarca e la dinastia degli Zagwe a cui apparteneva, avevano concesso ai Templari una posizione di potere e fiducia, ma anche di influenza nelle decisioni del regno continuando questi rapporti con i suoi successori, Imrahana, poi Christos e Naakuto Laab. Purtroppo questo stato di cose subì un improvviso e brusco cambiamento intorno all’anno 1270 quando, per motivi sconosciuti, Naakuto Laab venne convinto ad abdicare e salì al trono Yekuno Amlak che si diceva avesse una discendenza da Salomone. La realtà, in molti sostengono, sarebbe che lui e i suoi discendenti prossimi, il figlio Yagba Zion che regnò fino all’anno 1294 circa, e il suo successore Wedem Ara’ad, deboli come persone e militarmente, si preoccupavano per la presenza di quei Monaci Crociati. I nuovi regnanti non avevano grande simpatia per i Cavalieri Templari, ai quali era concesso e garantito un accesso privilegiato all’Arca, ma affrontarli poteva essere molto pericoloso e allora Wedem Ara’ad, molto probabilmente consigliato, applicò l’antica strategia della menzogna e del tradimento, praticata anni prima da un suo predecessore re Harbay. Il nuovo monarca etiope, nell’anno 1306, inviò una numerosa delegazione da Papa Clemente V ad Avignone. Naturalmente ci si può immaginare lo scopo della missione: denigrare i Templari mettendoli in cattiva luce agli occhi del papa e del re di Francia Filippo IV detto il Bello, ricordando loro che se questi Cavalieri si fossero impossessati dell’Arca dell’Alleanza, portandola in Terra Santa – Gerusalemme -, luogo da cui era stata prelevata, oppure in Europa, con una reliquia che rappresentava lo splendore della sacralità e della potenza la Sacra  Milizia del Tempio avrebbe sfidato sia l’autorità secolare di quel paese quanto quella religiosa. Entrambi, quindi, dovevano prevenire tale eventualità. Molto probabilmente questa “rappresentazione” degli emissari etiopi, dette al papa e al re francese una forte motivazione per schierarsi contro i Templari, inoltre si deve ricordare che l’astio e la cupidigia di Filippo il Bello nei confronti della Sacra Milizia del Tempio era immensa. Vi sono prove che corrispondono perfettamente ai fatti. Egli iniziò all’incirca un anno prima a pianificare la sua guerra privata contro l’Ordine (vale a dire nel 1306), discutendone più volte con Clemente V, che mai negò la propria disponibilità al “suo re”. Sarebbe, però, altrettanto assurdo pensare che la sola delegazione etiope possa avere portato alla distruzione dei Templari, ma naturalmente altrettanto vero, al contrario, è pensare che quella missione in Avignone (1306), non avesse a vedere nulla con gli avvenimenti dell’anno seguente.

Tornando all’Etiopia, più recentemente, nell’ultimo decennio del XXI secolo, alle porte della città di Axum, lo scrittore e ricercatore Graham Hancock (che dopo nove anni di intense e difficili ricerche ha scritto un libro sconcertante e affascinante al tempo stesso “ sull’Arca”), ha trovato un’altra Croix Pattée e altre ancora presso i ruderi del palazzo di re Kaleb e nei sotterranei, oltre ad altre prove incontestabili della presenza dei Templari. Della Sacra Milizia i Cavalieri compresero “lo scorrere ancora della Luce” e il suo immenso potere, così come Wolfram von Eschenbach realizzava questa “verità” raccontandola nel suo “Parzival”. Questi guerrieri, i Templari, “immortali” per le loro vicende leggendarie, “ascoltando nel ricordo” San Bernardo – Ugo de’ Pagani, osservando la luce dolce che muore sui volti chiari, intravedendo il rosso prorompente, ancora battagliero contro il calare dell’oscurità, respirando grati il magico alito del crepuscolo, cercano soltanto “una soave pace” dalla quale viene il senso del mistero che ha un carattere mistico, ma soprattutto iniziatico e regale, di ascesi e libera “vita”.

Please follow and like us:
Pin Share

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *