TRA FIABE E BESTIARI (Animali e simbologia)

Nel seguente articolo abbiamo inserito degli approfondimenti (riprese dal blog Fiabe in Analisi) relativo a ciascun animale che troviamo protagonista in alcune fiabe e favole classiche. La distizione tra favola e fiaba è necessaria in quanto la caratteristica principale che distingue la favola dalla fiaba è il fatto che nella favola i protagonisti sono degli animali (parlanti e con caratteristiche umane) mentre nelle fiabe sono personaggi “umani” mentre l’aspetto magico e irreale è ricoperto da fate, folletti, streghe, ecc. Le prime favole che conosciamo risalgono ad Esopo (ca 620 a.C. – ca 560 a.C.) e Fedro (ca 20 a.C. – ca 50 d.C.), entrambi schiavi, e che proprio grazie all’uso della figura allegorica dell’animale raccontavano la realtà quotidiana; gli animali erano quindi una sorta di maschera, che umanizzati e dotati di una psicologia fissa (la volpe astuta; il gatto opportunista; il cane fedele e così via…) esprimevano in modo libero critiche alla società del tempo. Anche La Fontaine esprimeva il suo pensiero sul potere dominante in Francia attraverso le favole, proponendo un tipo di antropomorfismo di denuncia politico-sociale attraverso le vicende di animali che incarnavano le diverse categorie sociali presenti nella realtà in cui La Fontaine viveva.  Si allontana dall’ambito strettamente politico-sociale Hans Christian Andersen, il quale esprime attraverso le sue opere il conflitto interiore e intimo del diverso e della diversità: Il Brutto Anatroccolo dove l’anatroccolo antropomorfo ci comunica il suo disagio nell’essere diverso e il suo desiderio di essere accettato dagli altri. Ma vdiamo alcuni degli animali più celebri.

La Sirenetta della Disney

SIRENA: nate secondo i miti ellenistici dal sangue di Acheloo, dio dei fiumi, esse erano molto diverse da come oggi le immaginiamo. Il loro corpo era infatti costituito per metà dal corpo di una donna e per l’altra metà da quello di un uccello. A dimostrazione di ciò l’Odissea narra che in seguito all’inganno subito da Ulisse (il quale si fece legare all’albero della sua nave per poter ascoltare il loro canto senza poterle seguire), esse decisero di togliersi la vita gettandosi in acqua, cosa decisamente impossibile per un essere per metà pesce. Figura chimerica, abbastanza conosciuta, è simbolo di beltà lusinghiera. Ella tiene ordinariamente uno specchio ovale nella destra e un pettine nella sinistra; spesso ha due code invece di una, e le tiene colle mani ripiegate verso il capo. Si vedono poche Sirene nell’arme; esse stanno più frequentemente in cimiero o come tenenti dello scudo. Una Sirena posta in un tino dicesi Melusina. Nelle più antiche arme tedesche le Sirene sono rappresentate senza braccia, e sempre con una sola coda.
Sul sito FIABE in ANALISI potete leggere due articoli:
“Le Spose direna della Puglia (e non solo)”
e “Fiabe e trascrizione cinematografica: La Sirenetta”.

L’ORSO: lo si trova posto in modo diverso relativamente agli attributi araldici: levato, sedente, armato, rampante ecc.ecc.. Essendo animale iracondo e feroce, rappresenta l’uomo fiero in guerra, pronto a seguire i moti dell’ira sua. Simboleggia altresì l’uomo di poco spirito, materiale e incapace di consiglio, e nelle imprese la diligenza, l’educazione, la fatica utile, l’amore vero, la virtù offesa, il coraggio indomabile e l’uomo feroce che con la ragione si placa. Fu insegna dei Galli, dei Goti, degli Alani e degli Svevi di Spagna. Nella tradizione dei Druidi l’importanza dell’Orso è evidenziata anche con dei collegamenti astrali. I Templari erano a conoscenza che i Druidi veneravano La Stella Polare e l’Orsa Maggiore, detta anche l’aratro dell’Orso o aratro di Artù. Lo stesso Artù era associato a questa costellazione, al Solstizio d’Inverno, e ci si rivolge, per chiedere consiglio e ispirazione alla Stella Polare, che brilla vicina all’Orsa Maggiore, la stella di Artù. Allora Artù e l’Orsa divengono il Solstizio d’Inverno, conosciuto come Alban Arthuan –la Luce di Artù-. La morte di re Artù, avvenuta qualche giorno dopo la battaglia di Salisbury, si situa, secondo la leggenda, intorno all’11 novembre, al giorno che corrispondeva, più o meno, con la grande festa autunnale con la quale molti popoli del vecchio continente festeggiavano l’Orso. Questo animale fu per secoli il re degli animali, ma dopo l’anno mille il leone cominciò la sua avanzata per la pretesa al trono. Presto sarebbe diventato il nuovo re nelle tradizioni europee. Questo passaggio è meno secondario di quanto si pensi: mette in gioco fatti culturali complessi, tanto nello spazio che nella durata. Relativamente alla zona euro mediterranea, si traduce una forte tensione tra un’Europa germanica e celtica, per la quale l’orso è, o è stato, il primo degli animali, e un’Europa latina, per la quale questo ruolo è svolto dal leone. La vittoria di quest’ultimo, nel XII secolo, sarà dovuta essenzialmente all’atteggiamento della Chiesa. Per i Templari, come per i Celti l’orso rappresenta la Luna, è l’energia femminile e protegge la prole, trasmettendo l’antica rivalità tra cinghiale e orso, vale a dire la lotta tra i poteri del tempo quelli spirituali. I celti adorano il dio-orso, Artaios, associabile al dio romano Mercurio. Sembra che il padre di questo dio fosse un orso, animale che simboleggia il legame tra cielo e terra. I Templari conoscevano molto bene anche le leggende dell’Orso e Artù, grazie alla loro capacità di “esplorare” e di comprendere il linguaggio poetico antico dei Bardi, decantato e non scritto. Tra questi quello del Bardo Gallese Taliesin Ben Beirdd (Taliesin. Capo di Bardi o Capo dei Poeti). Visitarono il territorio di Tintagel, il luogo leggendario che dette la nascita ad Artù, definendola un’isola in senso spirituale, per la sua forma particolare. I Templari ritenevano esistere fatti spirituali, da loro compresi, per conseguire con la propria capacità uno scopo, pervadere in profondità, penetrare, nella forma leggendaria di questa verità spirituale. Definendo l’isola, con approssimazione, un pentagono, essendo tale ha alla base un pentagramma a stella. I Monaci Cavalieri avevano visualizzato, nell’altopiano di Tintagel la forma dell’Orso , che li portava, per la sua somiglianza, a paragonarlo alla costellazione dell’Orsa, Orsa Maggiore. L’Ursa Major, rappresentante Re Artù, leggendaria, prende coscienza nei Templari in una “realtà” esterna tramite i sensi, dalla poetizzazione dei Bardi, leggenda raccontata più recentemente (circa 1893) da Fiona McCleod (William Sharp è stato uno scrittore e poeta scozzese che scrisse sotto lo pseudonimo di Fiona McCleod, tenuto quasi segreto durante la sua vita) “Oltre il Blu”. Riferisce sulle sette stelle che compongono questa costellazione e relativamente alla discesa di Re Artù dai cieli, avendo la sua anima incontrato suo padre Pendragon (la testa del drago), il quale gli aveva detto di avviarsi verso la costellazione dell’Orsa Maggiore. Si deve ricordare anche conosciuta come l’Aratro o il Carro di Artù. Come già detto è composto da sette stelle che rappresentano i sette re che siedono alla Tavola, tra cui Artù. Essi decidono che è giunto il momento in cui “il grande diventerà piccolo”, e il macrocosmo scenderà nel microcosmo, tutto ciò rappresenterà l’incarnazione. Artù (il suo nome sembra derivare dal gallese Uthyr, che significa Orso, Orsa Maggiore) scende a Tintagel, e l’Orsa Maggiore nei cieli ha la stessa forma dell’altopiano che ha dato la nascita ad Artù. L’Orsa si muove continuamente attorno alla Stella Polare, tre quattromila anni fa si trovava in luogo diverso, nella coda del drago. Per tanto l’Orsa Maggiore si trovava molto più vicina alla Stella Polare, girandole intorno in un orbita molto stretta. Nell’antichità le popolazioni interpretavano tutto ciò con enorme rispetto e con grande devozione, in quanto dava il senso, per la somiglianza, della scala a spirale discendente con la quale Artù scese sulla terra. Vi sono segreti profondi nella mitologia e nella cosmologia Celtica. Artù e l’Orso non sono solo un nome, quanto un titolo, un grado di iniziazione compreso dai Monaci Cavalieri.
Sul sito FIABE in ANALISI potete leggere un’analisi della fiaba “Biancarosa e Rosella. Fiaba dell’orso e della primavera”

L’AQUILA: animale amato e significativo per i Templari, considerato re degli uccelli, compagno di Giove, custode della folgore, insegna temuta un tempo per tutto il mondo, nulla poteva contendere all’Aquila il primato anche sulle figure del blasone. Il bellissimo giovinetto figlio del re troiano Troo e di Calliroe, Ganimede viene rapito dagli dei affinché divenga il loro coppiere. Omero, nel V° libro dell’Iliade, racconta che Giove, innamoratosi perdutamente di quello che è definito “il più bello di tutti i mortali”, si trasforma in aquila, piomba dall’alto e lo rapisce, portandolo con sé sull’Olimpo. Per i Templari a livello cavalleresco rappresentò il simbolo della maestà e della vittoria, della forza e del potere sovrano sia monarchico, sia popolare, sia spirituale. Come in araldica anche i Monaci/Cavalieri Templari davano un significato più specifico alle Aquile riprodotte nei diversi colori: emblema di nobiltà di natali, forza, potenza, grandezza d’animo, vittoria, valore, prudenza, strategia, gloria, dignità ereditaria; e segnatamente allorchè è spiegata, desiderio sublime, elevatezza di pensieri, disprezzo di basse cose. L’Aquila dal volo abbassato, piegato o chiuso indica spesso prudenza o rassegnazione; spiegante o sorante, slancio sublime, meditazioni di grande intrapresa; nascente, desiderio di gloria; volante, chiarezza di fama, a cui potrebbe alludere il verso di Dante: “Che sovra ogn’altro com’aquila vola”. I Templari “iniziati” erano a conoscenza che l’animo cauto che esamina il passato a norma dell’avvenire non poteva esser meglio simboleggiato dall’Aquila, che col capo rivolto, ne è il valore frenato dalla prudenza da quella con mezzo volo spiegato e mezzo abbassato, guardiane e protettrici dello spirito terreno dei Monaci Cavalieri, gli unici iniziati dell’Ordine. Nel significato più antico, da loro accettato, si presentava come qualcosa che vitalizza il corpo. Il soffio vitale dello spirito (per spirito s’intende un sinonimo di vita, forza vitale distinta dalla materia e che tuttavia interagisce con essa; una forma dell’essere radicalmente diversa dalla materia), come sottile principio materiale di vita analogamente al significato di anima, anche indipendentemente da un contesto religioso o metafisico come dottrina filosofica, realtà immateriale configurabile come entità superiore o trascendente o come principio, immanente all’uomo, della vita morale. In tutte le tradizioni l’Aquila incarna la potenza cosmica, avendo il dominio assoluto dell’aria. Il suo “veleggiare” nell’immensa vastità della volta celeste, quale simbolo di movimento ascensionale. Dalla terra al cielo, dal mondo materiale al mondo spirituale, dalla morte alla vita. Con il suo librarsi verso l’alto nel cielo, può sostentarsi del fuoco superiore del sole, agendone con la sua “magia Bernardiana” per un ringiovanimento. Non dobbiamo dimenticare che l’Aquila è un uccello solare, ricordato anche come “uccello di fuoco”, avente capacità per sfidare il sole guardandolo senza bruciarsi e appropriandosi della potenza dei suoi raggi. L’Aquila a volte, dai bianchi Cavalieri dalla Croce vermiglia, veniva rappresentata opposta al serpente, dove questa simboleggia la luce, il cielo, le forze supreme, mentre lo strisciante serpente è l’oscurità, la terra, le forze ctonie. Alimentandosi anche di serpenti rappresenta la vittoria del bene sul male, e nella mitologia, è l’animale sacro a Zeus che invia a divorare il fegato di Prometeo, come castigo per avere rubato il fuoco agli dei per farne dono agli uomini. In India Garunda è l’Aquila che serve da cavalcatura a Vishnu vittoriosa sul male. I Monaci Cavalieri legatissimi a San Giovanni Evangelista, per sempre legato a San Giovanni Battista, è sempre stato il Santo patrono degli iniziati, e lo fu anche per i Templari. Il suo simbolo come evangelista nella tradizione del Tetramorfo è l’Aquila (da cui il soprannome l’Aquila di Patmos), perché nella sua visione descritta nel Libro dell’Apocalisse avrebbe contemplato la Vera Luce del Verbo, come descritto nel Prologo del suo Vangelo. In Egitto l’Aquila è simbolo dell’Uno, della lettera A, dell’Inizio, della Luce, perché i suoi occhi aperti possono guardare il Sole. L’importanza di quest’animale si evince anche dal fatto che l’aquila (l’occhio che fissa il sole e per questo per i cristiani simboleggia la resurrezione) rappresenti uno dei quattro Apostoli, ossia Giovanni, che i Templari onoravano, essendo considerati Giovanniti, con atti di culto. Non a caso il suo Vangelo (Giovanni 1,1) inizia con l’estasi-ammirazione nei confronti di Dio: “In principio era il Verbo”. Lo stesso concetto, anche se semplificato, è ripreso ancora da Giovanni nell’Apocalisse, il quale sostiene che i quattro esseri viventi che conduce al trono divino hanno l’aspetto di un uomo, di un leone, di un toro e di un’aquila. Questo re degli uccelli è simbolo di contemplazione, e ciò spiega l’attribuzione dello stesso a San Giovanni ed al suo Vangelo, così differente dagli altri. Alcune opere medievali lo identificano con lo stesso Cristo, di cui rappresenta l’Ascensione e la Regalità. I Salmi ne fanno infine un simbolo di rigenerazione spirituale, come la fenice. L’Aquila di San Giovanni, con lo stesso, rappresentano insieme il tempo che passa, ma anche in modo invisibile, il presente, nel quale dobbiamo vivere ed al quale il cammino iniziatico invita gli iniziati a realizzarsi, cioè integrare nella loro realtà il presente per vivere il passato.
Sul sito FIABE in ANALISI potete leggere un’analisi della fiaba di Italo Calvino “Corpo denza l’anima”

LEONE: contende all’Aquila il vanto di essere la più nobile figura, gli uomini ne fecero il re degli animali, I Templari compresero che nessun’altro animale fu fatto simbolo di tante diverse idee quanto il leone. Nei geroglifici egiziani rappresentava magnanimità, e una testa di Leone, vigilanza e custodia. I Monaci Cavalieri, simbolisti e iconologi, accordarono a questo felino (grazie anche all’antico sapere da loro riportato alla luce), gli attributi e simboli di valore, dominio, nobile eroismo, fortezza, coraggio, magnanimità e generosità. Per i Templari era trasmettere un messaggio scolpito nelle pietre. Gli appartenenti all’Ordine, gli iniziati naturalmente, attribuirono al Leone anche la rappresentazione di un Monaco Cavaliere combattente, o armato a guardia di determinati luoghi. Tutto ciò era determinato da quanto appreso dai greci, i quali ponevano, a guardia, il Leone sulla soglia dei loro templi e credevano dormisse ad occhi aperti. Nelle Chiese Templari spesso troviamo all’ingresso o all’interno delle teste di Leoni (statue o pietre scolpite – rappresentanti-vigilanza, per quanto riguarda la testa, e quella di ferocia al suo busto), a guardia di un “segreto”. Il Leone è indiscusso simbolo di forza, perciò posto a guardia dello spazio sacro. Cristo è chiamato “il Leone della tribù di Giuda”. Il Leone è accanto al trono divino nel libro dell’Apocalisse. Nel simbolismo degli elementi connessi con il fuoco il Leone rappresenta il coraggio, il potere supremo, la nobiltà e l’orgoglio. Agisce come un simbolo solare, ed è anche dedicato a divinità solari: ad esempio, al vedico dio Mitra. I Veda -in alfabeto devanāgarī, sanscrito vedico Vedá- sono un’antichissima raccolta in sanscrito vedico di testi sacri dei popoli arii che invasero intorno al XV secolo a.C. l’India settentrionale, costituenti la civiltà religiosa vedica. Tra gli animali, il Leone spesso simboleggia il lato chiaro ed era molto diffuso anche nella cultura sacra dei Fenici, si ricordano infatti i Leoni di Sulci antica città Fenicia, ma sono apparsi praticamente nella cultura di ogni civiltà che, in qualche modo, sia entrata in contatto con questo regale animale. Il Leone ha una simbologia ambivalente negativa e positiva. Nella sua valenza negativa il Leone è il simbolo degli istinti non domati in preda alla concupiscenza, come desiderio sfrenato di possedere tutto ciò che cade sotto i sensi. Nella valenza positiva il Leone è sinonimo di regalità e di sapienza. In un percorso iniziatico il Leone simboleggia l’ardore e la forza con cui l’iniziato riesce a dominare il suo lato istintivo, che lo condurrebbe nelle tenebre, per intraprendere un cammino verso la luce. Nella Regola dell’Ordine del Tempio, al capitolo XLVIII, si legge la seguente frase: “UT LEO SEMPER FERIATUR”, strano una esortazione alla caccia al Leone, risulta di difficile lettura per la posizione che trova nella regola, viene infatti a collocarsi dopo due fermi divieti. Il primo alla caccia con il falcone, il secondo alla caccia di animali terrestri. Due illustri rappresentanti del periodo delle Crociate, l’Egumeno Daniil, l’Abate detto anche il viaggiatore o il pellegrino, proveniente dalla Russia (prima metà del XII° secolo) si recò in Terra Santa, ed Usama ibn Munqidh (XII° secolo). I loro scritti ci consentono di avere informazioni sui Regni Crociati. Entrambi ci configurano la presenza del Leone, facendone una descrizione minacciosa e tracciandone un’immagine della vera pericolosità di tale terribile cacciatore. Ecco, allora, si comprende il perché dell’utilità del precetto (dell’autorità ecclesiastica) a difesa dell’incolumità dei pellegrini stessi, o meglio il significato simbolico, rappresentava il male, la parte negativa di se stesso. Tale lettura è confermata dalla visione “politica” e allegorica, cioè quella che nel Leone si collegava la figura del nemico, che in nome della Jihad (Guerra Santa) uccideva e insidiava i luoghi cristiani. Noi non possiamo credere che essendo la natura dell’Ordine mistica, creato dalla mente ispiratrice dell’immenso San Bernardo, darne una lettura spirituale elevandosi, come si vuol far credere alla profanità comune, attraverso l’analisi delle Sacre Scritture e degli ecclesiastici, i quali ne tracciarono una significazione recondita come simbolo della ferinità. Infatti, si tenta la sintesi crudele delle forze del male, per questo modello ideale del nemico di quella guerra spirituale combattuta dal guerriero cristiano contro la sua natura diabolica e le tentazioni del mondo terreno, frutto del peccato originale, macchia indelebile dalla quale guardarsi e difendersi con tutta la forza senza sosta. Intelligentemente il grande Santo di Chiaravalle, per non entrare in contrasto con la Chiesa degli uomini (Papa, Cardinali, Vescovi ecc.) inserì nella Regola dell’Ordine la caccia al Leone, visto che era considerato il male, ma in realtà i Monaci Cavalieri uccisero questo felino solo se attaccati o per difendere i pellegrini.
Sul sito FIABE in ANALISI potete leggere un’analisi della fiaba di Italo Calvino “L’erba dei leoni”

CERVO: è il simbolo della rigenerazione vitale, per il rinnovarsi periodico del suo palco, che è paragonato anche ai rami degli alberi, assume un valore allegorico di sviluppo e di unione tra le forze superiori e quelle inferiori. Maestoso e pieno di dignità il cervo è uno degli animali tanto pacifici quanto selvaggi. Si dice sia il guardiano della foresta e che sia guida per coloro che vi entrano con rispetto e voglia di apprendere i misteri dei regni naturali. Si vede frequente nelle armi come ricordo di caccia signorili, e come emblema di antica nobiltà e prudenza militare.

Illustrazione di Franz Müller-Münster (1867)

Se è d’oro su azzurro rappresenta desiderio ardente verso Dio, animo pronto e generoso, cavaliere ardito e cortese; se è d’argento su rosso, prudenza trionfatrice in amore, afferma il Ginanni. Indica anche dolcezza del procedere d’una antica nobiltà, secondo la credenza dei secoli passati che sia senza fiele e viva centinaia d’anni, scrive il Bombaci. Gli iconologi rappresentano la longevità con una matrona seduta sopra un Cervo, afferma Rusconi. In Inghilterra serve spesso da supporto. Si pone nello scudo passante (attributo che non si blasona), nascente, ferito, gualdrappato, saliente, unghiato, in riposo, cimato o ramoso o ramifero, slanciato, natante, corrente, collarinato ecc.ecc. La sola testa  in prospetto si dice rincontro; la testa scarnata massacro. Il Cervo rosso si blasona al naturale.

Sul sito FIABE in ANALISI potete leggere l’articolo di Sara Foti Scivaliere “La conciliazione della nostra duplice natura (Fratellino e Sorellina)”

 

 

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